C’è un bel romanzo di Bernhard che si intitola Il soccombente. Soccombere è una parola che mi ha sempre affascinato molto: indica un’azione sacrificale, qualcosa di profondo, che sta al margine. Nell’età pandemica vi sono in atto grandi cambiamenti, trasformazioni sociali di grande portata, ma la stampa, i social, il mondo culturale, l’accademia, sembrano non accorgersene. Il silenzio è assordante, quando non è interrotto da terrificanti inni alla resilienza, al fatto che ”ne siamo usciti più forti”, al ”show must go on”, ecc. Tutto come prima, meglio di prima, sempre più di prima. Le cose però non stanno così. Questi anni hanno segnato profondamente le fasce deboli e hanno distrutto persone, realtà, famiglie: questi anni sono stati pesanti e terribili per i bambini, gli adolescenti, per i genitori. Nelle città ci sono eventi da carrozzone, musica disco in piazza, fuochi d’artificio. Un incubo nell’incubo. Le persone hanno bisogno d’altro: basta con le ricette per la felicità, con proclami da intellettuali che leggono la storia come un rotocalco da salotto, che si inventano la filosofia delle pentole e del rosmarino.
Abbiamo la necessità di elaborare la malattia, il confronto costante con la paura della morte, le mancanze abissali delle istituzioni, i limiti del sistema in cui viviamo, dobbiamo elaborare i nostri desideri più profondi e le nostre angosce. L’alternativa è di risvegliarci inconsapevoli soccombenti e di distruggere quel poco che resta in noi dell’Altro.