Nell’epoca contemporanea qual è l’approccio alla sofferenza? Nei social, nelle riviste, nei giornali, la sofferenza viene trattata come qualcosa di incidentale, disdicevole, qualcosa che dev’essere evacuata, superata. Dire di una persona “ha avuto una vita difficile” suona come un insulto, un’offesa, come una macchia. Chi ha sofferto o soffre non ne parla, perché parlare della sofferenza non sta bene, è qualcosa che non segue l’etichetta, qualcosa che imbarazza. La sofferenza appartiene all’essere umano in quanto tale, ma l’atteggiamento imperante è di costante fuga, di rimozione, di accusa. Difficile allora poter intraprendere un cammino nel segno di una trasformazione, difficile divenire consapevoli di tutta la portata delle nostre esperienze: sui social e con gli altri dobbiamo apparire come vitrei, lucidi, senza una ruga, sempre sorridenti, performanti e contenti, anche in mezzo a una pandemia. “La pandemia ci ha insegnato che…”, “ora siamo tutti più uniti”, “finalmente torniamo ad abbracciarci”, quanti slogan abbiamo sentito. Che cosa ci ha portato questo periodo atipico potremo saperlo solo tra molto tempo, un tempo per provare a liberarci dalla vergogna della sofferenza.