Ho tradotto questa poesia di Janet Frame, che è stata pubblicata nella rivista FILART (www.arteterapiafilosofica.com). Si intitola “l’albero”. La poesia può essere una strategia di cura di sé estremamente efficace: nel metodo Cre(t)a la produzione delle parole, delle metafore, delle analogie, trova un posto di rilievo. Come afferma Heidegger, “Il linguaggio è la casa dell’essere”: nella sonorità di ogni produzione vocale (la lallazione, ad esempio) risiede l’intenzionalità comunicativa.
C’è un albero che sta per essere tagliato
e non lo sa, perché gli alberi non conoscono mai
il tempo in cui la scure taglierà le loro radici
e dal freddo terreno, arriverà la supplica della terra, del sole, della pioggia.
C’è un albero dalla mia finestra,
i rami
onde e dita
creature marine che esplorano, cercano nel blu prigione e tormento
incontri di piacere e di pericolo.
“Vecchio brutto albero”, udii dire a qualcuno. “Nessuno vive nella casa, adesso”.
E presto, lo so, il vicino inizierà a piangere. “L’albero è troppo vecchio, troppo alto
e chi viveva nella casa è morto o è andato lontano”.
Non posso continuare. Di ora in ora
ho guardato persino quando non soffiava il vento l’albero era lì
i rami si incontravano, le foglie si sfioravano
sfuggendosi una con l’altra, disperatamente tremavano avanti e indietro nell’opprimente interezza
di ogni attimo di un albero:
ma è solo chi guarda e cresce stanca.
Motel attendono la nascita: una nuova progenie, delicatamente murata con glicini e clematis;
una rosa sanguinea
spumeggia come un raro segno di vita nel vecchio giardino. Avrei voluto afferrarla ma poi ho deciso di no.
Macchierà la grandiosa ascia quando verrà portata da un cavaliere-errante per salvare il quartiere di periferia dai pericoli dell’albero che invade il panorama altrui
e si culla fino all’altissimo e selvaggio, insensatamente vivo
in un mondo dove è molto più di buon gusto fingersi morti molti anni prima di morire.
J. Frame