In questo momento storico di forti tensioni sociali, c’è una parte della società che mi lascia profondamente delusa. Il centro della produzione culturale, il fulcro della riflessione teoretica, della circolazione del sapere, che dovrebbe essere l’Università, sembra essersi ridotta a un grande apparato del potere, adatto a sfornare figure professionali, ma ben poche figure intellettuali. Se infatti l’intellettuale dev’essere figura critica, mai come in questo periodo, la critica sarebbe stata un atto dovuto di partecipazione e di cooperazione collettiva. Ma, a parte sparute voci, non si leva nessun dissenso dalle fila degli accademici. Anzi, contro chi, come Giorgio Agamben, ha affermato la propria riflessione critica, si è schierato un coro di ben 100 e più voci che tristemente hanno attaccato il filosofo (che ha consolidata fama internazionale), concertandosi in una lettera comune. Un atto adesivo, totalmente acritico, lontano anni luce dalla dialettica del pensiero. A quest’azione corale si sono poi unite anche voci di singoli accademici che hanno addirittura accusato Agamben di non essere più in grado di comprendere la realtà, e altre voci di autori internazionali, che hanno insultato il filosofo, perché coerente con la propria posizione.
A ben guardare oggi l’Università sembra un grande teatro in cui la maggior parte degli attori esprimono il lato più vacuo e vanesio del proprio agire, in un’adesione totale ai dettami autoritari, anche per ciò che riguarda gli ambiti di ricerca da sviluppare o da intraprendere. Chissà quando e dove si è perso il nostro centro culturale per eccellenza nel magma del pensiero unico?