In quest’anno di pandemia ho riletto e letto tanti romanzi: mi chiedo spesso qual è la caratteristica di un romanzo che può essere avvincente, che coinvolga, che emozioni. Sono arrivata alla temporanea conclusione che il romanzo per emozionare non deve essere “personale”: lo scrittore deve lasciare ai propri personaggi un’immensa libertà di agire, di sorprendere, deve in qualche modo inventare e ricreare la realtà. Tutti gli scritti che ricalcano cose accadute, che raccontano esperienze, ad un certo punto suonano artefatti, scialbi, noiosi, falsi. Più il romanzo tenta di imitare la vita vissuta più cade nella cattiva letteratura. Ci si può quindi chiedere: ma i grandi romanzieri, come Dostoevksij, Nemirovskj, Tolstoj non descrivevano forse ciò che vedevano, le proprie vite, le proprie esperienze? Io non credo: sì, il punto di partenza poteva essere un dettaglio, un evento, un vestito, una piega del polso (come afferma Tolstoj sul dettaglio che lo aveva ispirato nella composizione di “Anna Karenina”). E poi dalla piega del polso, o dal vestito, il grande scrittore evocava desideri, mondi immaginari, trasfigurazioni, creava personaggi inesistenti per ricacciarli nel gorgo della propria disperazione e dare così forma alla tristezza. Episodi terribili, come nel caso di Dostoevskij, erano trasformati in accurate descrizioni in cui teologia, filosofia, psicologia si intrecciano e danno origine al pensiero più alto.