Il periodo storico in cui viviamo è caratterizzato dal politicamente corretto, che è diventato una rimozione obbligata di ogni elemento conflittuale della realtà. Non “sta bene” dire così, o denunciare uno stato di cose, o testimoniare condizioni difficili, tutto dev’essere lucido, teso, rilucente, seducente, fantastico. I social rimandano quest’imperativo della lucentezza, sino alla robotizzazione, alla disumanizzazione dell’umano. La rimozione è il meccanismo di difesa che domina incontrastato, sia individualmente sia collettivamente. Più sono urlate raccomandazioni a non dimenticare, più si grida alla mancanza di socialità e più il soggetto si atomizza perso nella propria sofferenza, che deve sistematicamente nascondere, una sofferenza di cui vergognarsi, o con cui aggredire e odiare. Avere la consapevolezza di ferite, di cicatrici, di segni da riparare e da comprendere richiede tempo, onestà, dolore. Nell’età del rimosso lo spazio è ridotto a un pixel, i bisogni a una pubblicità, i desideri a un like. Non è solo una questione di post-modernità, o di modernità liquida, ma il processo collettivo e inconsapevole di un’umanità destinata a trasformarsi in qualcosa di plastico, elettronico, una visione dell’umano secondo cui solo una parte del pianeta ha diritto di sopravvivere. E per sopravvivere uccidendo gli altri e l’altro in me devo per forza di cose rimuovere in me e negli altri ogni frammento di impurità, di fragilità, di errore.