Alcune ricerche sottolineano il carattere terapeutico dei social: attraverso l’esposizione del mio privato, delle mie idee politiche o sociali, del mio pensare, il mio “io” si rafforza del riconoscimento da parte della “rete”. Con i like, gli emoticon, i commenti, i miei post, le mie foto, le mie attività diventano rappresentazioni collettive. Mi identifico con queste rappresentazioni e percepisco un’appartenenza.
Se invece provassimo a trattenere l’impulso che ci muove quando pubblichiamo il nostro pensiero? Se provassimo a trattenere quell’inquietudine che ci spinge a desiderare un’appartenenza (con un gruppo, un’idea, un’immagine persino) e tentassimo di “lavorarci su”, attraverso un’elaborazione privata, privatissima, in uno spazio di cura e di ascolto? Ci sentiremmo spaesati, soli, senza quell’identità che prima ci sembrava così “ufficiale”. Ma proprio attraverso questo spaesamento potremmo riuscire a tirare le fila dei nostri bisogni, dei nostri desideri, elaborare le nostre mancanze e le nostre insicurezze e cominciare a riconoscere l’altro, perché inquietante, perché altro. Provare a farlo in presenza, nel quotidiano, nel qui e ora. Provare a cambiare, a trasformare davvero la nostra realtà, al di là dei social, degli slogan, di una identità virtuale che rafforza le nostre stereotipie e lentamente distrugge la nostra più intima essenza.